Enrico Crispolti – Ezio Gribaudo il peso del concreto – 1968
Sito web ufficiale dell'artista Ezio Gribaudo
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Enrico Crispolti – Ezio Gribaudo il peso del concreto – 1968

Questi fogli di Gribaudo sollecitano eventualità, ipotesi di immagini, attraverso un procedere indubbiamente associativo (di suggestioni figurali e semantiche), se non sapientemente combinatorio. Tutta la vicenda del fotomontaggio dadaista, e poi, soprattutto, surrealista si è svolta sull’associazione di immagini crucialmente significanti, e che nuova carica semantica venivano ad assumere proprio appunto nella nuovissima frizione alla quale erano costrette: in risultati, almeno certo per quanto riguarda i fotomontaggi surrealisti giocati proprio sulla sorpresa che già aveva indicato Latreamont: “Bello come l’incontro fortuito…”. I fogli di Gribaudo naturalmente nulla hanno a che fare con i fotomontaggi dadaisti, né tanto meno con quelli surrealisti, come neppure con quelle sottili ed acutissime contaminazioni della vecchia “imagerie” popolare e borghese che ha compiuto Ernst, per esempio nella sua celeberrima Une semaine de bonté. Ho ricordato dunque quei tipici esempi d’immaginazione associativa soltanto per avvertire meglio subito la particolare natura dell”intervento d’immaginazione associativa di Gribaudo. Ed anzitutto il suo livello operativo, se così posso dire. È chiaro infatti che il fotomontaggio dadaista, quanto quello surrealista (da Hausmann, Heartfield, insomma, fino a Styrsky, Toyen, Teige) opera associando brani di immagini nozionalmente definiti (sia pure attraverso quella nuovissima dimensione d’“imagerie”, fondata su quello che in altra occasione ho chiamato “rinnovamento delle nozioni visive”, trattandosi infatti di immagini fotografiche e di fotoriproduzioni meccaniche). Mentre il livello al quale Gribaudo si muove, direi scandagliando con la sua immaginazione associativa e combinatoria, è assolutamente prenozionale, o di nozionalità aurorale e possibilistica. Non certo però quell’auroralità nozionale, quella prenozionalità che fu il terreno tipico di alcune delle maggiori mozioni informali (si pensi a quegli Objets di Fautrier, intesi, come bene scrisse più d’una decina d’anni fa Berne-Joffroy, quasi la loro nozione non fosse ancora definita). Piuttosto un singolare livello di desemantizzazione, e cioè di regressione nozionale, quale viene a verificarsi quando l’immagine nozionalmente chiara e distinta subisca particolari “trattamenti” grafici, oppure s’avventuri sulla via del relitto, in quella vicenda post mortem rispetto alla “vita” piena e tuttavia esaurita della sua originaria destinazione (come accade per esempio al cliché tipografico una volta concluso il suo impiego). È appunto a questo livello che interviene Gribaudo. Egli combina, riplasma semanticamente veri e propri “cascami” semantici visuali. Non per riproporne, sia pure in situazioni nuove l’originaria semanticita, l’originaria loro validità nozionale, bensì proprio per sollecitarli in quanto tali, per spremerli, si potrebbe quasi dire di tutte le loro virtualità semantiche, pur non uscendo da quel loro livello appunto di “cascami”, di frammenti ed ombre di immagini nozionali a volte in essi soltanto vagamente intuibili. Del resto a Gribaudo non mi sembra prema di riconquistare immagini nozionali chiare e distinte, cittadine di quell’“iconosfera” della quale parla Cohen Séat: bensì, molto chiaramente, immagini fantastiche, o più esattamente appunto eventualità, ipotesi di immagini, ma certo dunque di loro validità tutta fantastica. In una recente presentazione milanese di questi fogli, Barilli ha ben messo in luce come Gribaudo si serva, per queste sue singolarissime incisioni, di uno strumento meccanico, denunciandolo subito per tale (il reimpiego di clichés tipografici, la stampa a secco, neutra, anemotiva, quasi asettica). Ma ecco dunque che, nel bel mezzo della dichiarata meccanicità, Gribaudo opera per riscattare proprio un margine d’immaginatività libera, di fantasia associativa (in immagini appunto meramente virtuali, ipotetiche, meramente allusorie), che non è certo della macchina, né del suo ferreo circolo di logica economica. Nascono così queste singolarissime topografie (o meglio forse topologie?), che descrivono luoghi improbabili ed arcani, instacabilmente irripetuti, ove accanto ad una ipotetica orografia, ecco sbocciare una sorta di fiore, o di riccio decorativo, addirittura di sagoma umana. È appunto l’assenza del bianco, la neutralità della stampa a secco a mantenere quel livello di ombre di nozioni visive, a restringere in certo modo il campo dell’intervento immaginativo, così che non dilaghi e sfugga, bensì si offra con tutta chiarezza lì sul foglio anche nel suo meccanismo associativo, scopra le proprie carte denunci le proprie componenti. Ma è appunto in questo margine volutamente ristretto che simili proposizioni acquistano il loro fascino e il loro mistero: la cui origine è dunque in fondo in un’analitica sottile che sa farsi strumento d’articolazione del proprio discorso figurale di una crescita associativa automatica.