Albino Galvano – 1965
Sito web ufficiale dell'artista Ezio Gribaudo
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Albino Galvano – 1965

Non sappiamo se, dopo la ricognizione di queste opere recenti di Ezio Gribaudo, la critica non dovrà spostare l’accento dell’interpretazione da termini come “simboli a carattere intimistico”, “sottile elegia interiore”, “diaristica” “ambiguità fra presenza e ricordo” (abbiamo citato le parole di un esegeta tra i piu intelligenti e responsabili: Enrico Crispolti) a un discorso che sottolinei l’espandersi e l’articolarsi di quel “dettato interiore” ad una dimensione di epica delle immagini, quasi ad un eufuismo figurale tondo. Per lo meno, è in questo modo che ci pare di poter leggere l’assunzione, da Gribaudo compiuta, di occasioni storiografiche spettacolari e rituali – in questo caso il Secondo Concilio Vaticano – per ripeterle nella suggestione mnemonico-visiva di una continuata allusività. Come si vede, i termini di quella puntualizzata interpretazione permangono: il “simbolo”, l’“ambiguita fra presenza e ricordo” sono più che mai presenti, ma dalla dimensione intimistica, lirica, si passa a quella epica, celebrativa. Quanto ai modi figurativi e cromatici del passaggio non occorre che accennare al loro inserirsi in quelle costanti di stile che da Michel Tapié furono indicate come neo-barocco e structures ensemblistes. Ma già il termine “barocco” appare indicativo di ciò che vi è di permanente e di quanto è nuovo in questi quadri di Gribaudo: basti paragonare la serie dei ricordi americani dove l’impiego dell’oro mirava ad interiorizzare lo spettacolo – oggettivamente incombente – per restituirlo in una luce onirica di fantasma, in una spazialità indeterminata, con questi oggetti liturgici scelti proprio per la loro definitezza formale: la mitria, il tricorno, e inseriti in uno spazio che la reiterazione scandisce con misura precisa, con ritmica architettonica “barocco” che può persino giungere alla citazione diretta, quando, ad esempio, il motivo del “sottinsù” dei soffitti gesuitici dispone gli elementi del quadro in una plurivalenza d’alto e di basso, in uno spazio non più indefinito per indeterminatezza, ma per possibilità di un’articolazione dinamica. E le strutture di reiterazione consentono un contrappunto degli elementi simbolistici che ne trasforma il significato, raccordandolo alla nuova, sfogata, dimensione dello spazio. È d’altra parte agevole cogliere il rapporto di continuità e, insieme, di distacco che lega questo lavoro recente di Ezio Gribaudo alle ricerche che su di lui più possono aver esercitato fascino. Se al “barocco” e all’impiego delle materie metalliche non sarà stata estranea l’amicizia e la vicinanza di Fontana, il nuovo corso della pittura di Gribaudo capovolge il senso spaziale che di Fontana è proprio: al “barocco” come limite di una superficie tinta e aggredita (la forma d’ovato e i fregi d’oro contornanti “sulla parete” le tele d’una recente mostra milanese) Gribaudo contrappone un’assunzione di ritmica barocca “all’interno” del quadro stesso (e la cosa non è senza connessione con un parallelo atteggiamento spirituale: al barocco estroverso di Fontana qui si sostituisce un barocco “interiorizzato”, quel “contrapporsi al mondo empirico come dettato interiore” di cui parlava acutamente Crispolti, ora portato nell’elemento della nuova spazialità). O ancora Scipione? Il nome è d’obbligo coi rossi, coi rossi cardinalizi. E appunto si può misurare il senso dell’evoluzione storica del gusto negli ultimi decenni, raffrontando il modo con cui una certa Roma, ecclesiastica e visionaria, dall’interiorizzazione tra surrealistica e metafisica degli anni trenta approda a questa rassegna di strutture emblematiche polifonicamente accordate e misurate. Con emozione Gribaudo riscopre il valore della linea arginante, del particolare realizzato a punta di pennello. Cura contro l’“informale”? Forse, ma soprattutto adeguarsi del mezzo ad una intenzione di racconto ben confessata ed esplicita. Perché l’uscire dall’interiorità, dal sogno dorato per proiettare quella luce nella misura storica di un fatto contemporaneo, significa per il pittore sostituire alla confessione il distendersi della narrazione: narrazione per simboli ed emblemi, ma, perciò appunto, trasferita nel tempo immemoriale del mito, nel tempo magico in cui contemporaneità ed eternità coincidono. S’intenderà allora come il repertorio d’oggetti: le mitrie ricamate o corruscanti, le persone ricondotte dal fasto dei paramenti liturgici a immagini celebrative di se stesse, non sono più soltanto simboli, ma sono la cosa stessa – nella propria realtà storica – chiamata ad acquistare significato simbolico. E, poiché il fatto è storico, è la storia umana a farsi rituale, essa stessa, e liturgica: definita entro la risoluzione chiarificatrice e trasfiguratrice dell’arte, per svelare il suo perenne significato di storia sacra. È, del resto, un tal modo, esemplare di come certi mezzi dello “sperimentalismo” dell’arte contemporanea possano incarnare un diverso atteggiamento di fronte alla vita, una differente Weltanschauung da quella cui sono piegati di consueto: non l’irrazionale, naturale istinto di vita sfogato nella gremita fermentazione informale o, all’opposto, la alienata durezza e prosaicità dell’oggetto quotidiano, tema della “Pop-Art”, ma una relazione tra uomo e istituzioni, tra individua soggettività e vita storica delle vicende umane, senza nulla perdere del proprio carattere di protesta contro la tradizione logorata o contro l’inerzia delle abitudini ]…].