Capitoletti per il candore d’un flâneur – Enrico Crispolti – 2008
Sito web ufficiale dell'artista Ezio Gribaudo
5115
post-template-default,single,single-post,postid-5115,single-format-standard,stockholm-core-2.0.9,select-theme-ver-6.8,ajax_fade,page_not_loaded,vertical_menu_enabled,paspartu_enabled,menu-animation-line-through,side_area_uncovered,,qode_menu_,wpb-js-composer js-comp-ver-6.11.0,vc_responsive

Capitoletti per il candore d’un flâneur – Enrico Crispolti – 2008

“Flani” della memoria

Lo conosco da quasi mezzo secolo, quello che in arte è stato soprattutto l’uomo del bian- co! Se non il mio primo editore, Ezio Gribaudo è infatti stato certamente l’editore del mio primo libro veramente importante nella prospettiva non soltanto di un’affermazione metodologica (generazionale, almeno in Italia) dello studio storico-critico del contempo- raneo ma anche, specificamente, di un allargamento conoscitivo della ricostruzione delle vicende del futurismo italiano. Esattamente ponendo le basi di un’apertura storico-critica alle vicende del futurismo italiano lungamente sviluppatesi dopo la morte di Boccioni e di Sant’Elia (1916, com’è noto), che nell’opinione storiografica fino ad allora corrente sem- brava aver congiuntamente suggellato la fine del movimento marinettiano (ma c’è ancor oggi chi tenta di ripristinare quell’antistorica limitazione, e proprio in vista del centenario della fondazione del movimento stesso, nel 2009!). Era nel 1962, e si trattava del grosso mio volume Il secondo futurismo: 5 pittori + 1 scultore, Torino, 1923-1938. Avevo ventinove anni ed Ezio ne aveva trentatré ma già dirigeva le Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, allora af- fermatesi nell’ambito dell’avanguardia artistica non soltanto italiana per iniziative editoriali di pregio e avanzate, che coinvolgevano autori quali Giuseppe Marchiori, Michel Tapié, Gillo Dorfles, Luigi Carluccio. Era riuscito a convincere il presidente del grande complesso tipografico Pozzo di Moncalieri (celeberrimo allora per editare non so da quanti anni tutte le versioni del classico orario ferroviario, le uniche veramente attendibili) a pubblicare, per prestigio, libri di pregio sull’arte contemporanea. Erano anni di entusiasmo produttivo, di boom. E Gribaudo aveva immaginato libri nuovi di taglio, molto illustrati, dedicati all’arte attuale, in uno sguardo sia storico sia attualistico. In un paio d’anni mi pubblicò anche quel capolavoro editoriale che è la monografia dedicata al Concilio di Vacchi, il primo grande ciclo storico, dedicato al Vaticano II, di questo pittore fra i maggiori europei del secondo Novecento (e attuali), e poi la grande monografia che ha per la prima volta indagato il complesso universo immaginativo archetipico di Cagli (con un partecipe diario di Marchio- ri). Al mio entusiasmo operativo, sia di storico sia di critico militante, corrispondeva bene l’accendersi progettuale, editoriale, di Ezio.

Ricordo tutto questo non per mettere qui subito in campo uno spiazzamento da amarcord ma perché le origini d’esperienza e strumentali del suo lavoro non più di im- maginazione editoriale ma parallelo, di mera invenzione plastica, non possono essere disgiunte, come un comprensibile imprinting, da una profonda familiarità con la realtà materiale dell’universo tipografico, vale a dire dalla fisicità delle sue materie, delle sue mo- dalità di ricezione d’immagine, dai suoi passaggi tecnici. E per Ezio all’origine (dunque nei primissimi anni sessanta) fu soprattutto la realtà dei flani. Parola che oggi, in tempo di elaborazione digitale di ogni preparazione tipografica, anche dei giornali, più che desueta può suonare veramente misteriosa, ma che il Glossario gribaudesco contenuto nel volume Ezio Gribaudo: bianchi e teatri. Antologia 1966-2006, a cura di Willy Beck, pubblicato un paio d’anni fa da Skira in occasione della mostra da Giugiaro Design, a Moncalieri, così inequivocabilmente spiega: “In stereotipia il flano è lo speciale tipo di cartoncino, resisten- te al calore, che si modella su una pagina di composizione per rilevarne l’impronta. In essa verrà colato il piombo fuso al fine di ottenere una forma compatta e stampabile” (p. 121). E nell’avventura plastico-visiva di Gribaudo, accanto a quella sua di manager editoriale, in principio, strumentalmente determinante per un orientamento di una maturità con- sapevole delle possibilità del proprio fare, è appunto questo ormai desueto, dimenticato portato del lavoro tipografico a grande tiratura, il flano, mediatore fattuale della plasticità tipografica. Esattamente, nel riuso fattone da Ezio, il flano, immaginativamente quanto oggettualmente recuperato, si è affermato quale campo possibile dell’evidenza fisica di una traccia iconica o segnica memoriale. D’una traccia più che mai concreta dunque nella sua fisicità cosale, tattile, materica, e tuttavia subito spiazzata in una dimensione di spessore memoriale attraverso la trasposizione dell’evidenza di un’immagine o di un segno entro la materializzazione operata dal bianco dell’impressione di questa sul bianco del contesto, del campo, del fondo.

Una prima tentazione di pittura

C’è sempre una tentazione di pittura all’origine di ogni avventura plastico-visiva, anche riversata in materiologie quando non tecnologie nuove. Offre forse il tempo d’ammortiz- zazione essenziale per una prima messa a punto mentale quanto operativa di una volontà d’immagine o di segno, il tempo indispensabile per qualcosa come un utile familiarizzarsi anche con una sua possibile calibratura. Del resto, quando l’ho conosciuto (come edito- re) Gribaudo dipingeva: conosceva ovviamente i flani ma non li aveva ancora impiegati espressivamente, non se ne era insomma ancora appropriato. E del resto i primissimi utilizzati li ha anche invasi di colore, prima di reinventarne un candore. Di quella sua pittura, che nel 1963 leggeva in chiave di levità evocativa (lontanissima dalla visionarietà corposa delle proposizioni di Vacchi) immagini conciliari, ho scritto brevissimamente, proprio nel 1963, una piccola pagina in Disegni e parole, l’agile volume-album antologico curato dallo stesso Gribaudo assieme a Luigi Carluccio ed Edoardo Sanguineti, pubbli- cato nelle Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo. Una lettura nella quale sottolineavo una dimen- sione intimistica dei suoi dipinti, poi più difficilmente rilevabile a fronte dell’oggettività netta, estroversa, a breve subentrata, appunto dei flani. Eppure, forse insinuatasi anche entro l’utilizzo di questi, nei bianchi su bianchi, in chiave sottilmente motivazionale d’un esercizio di citazione-evocazione che altrimenti potrebbe risultare aggregativamente un po’ meccanico. Ecco dunque, credo non inutilmente, quel testo: “I passaggi più vivi della pittura e della grafica di Gribaudo sono nei momenti di più immediata e schietta desi- gnazione di simboli a carattere intimistico, come una sorta di sottile elegia interiore che situi in una dimensione particolare, quasi in una sospensione, il simbolo stesso, attutito in ogni sua sporgenza emblematica, e reso come distante, riposto in una zolla di pieno lirismo evocativo.

Il simbolo riaffiora, in un certo processo effusivo, e non pretende d’imporsi emotiva- mente, come non ha provenienze d’ordine esterno ed empirico. Nasce infatti quasi da una riflessione d’immagine: si contrappone al mondo empirico come dettato interiore, in dimen- sione appunto sottilmente decantata.

E di qui trae i motivi d’articolazione della sua storia, della sua complessità d’elementi, di componenti. È dunque una sorta di racconto, una sorta di diario interiore di movimenti indiretti ed attenuati, ma non perciò meno prensili ed insinuanti, nel margine d’emotività che sollecitano.

Ne risulta un’imagerie vitalmente articolata e complessa, che ha i propri ricorsi nell’am- pio arco appunto quasi d’una diaristica, di tratto in tratto rinnovata. E ne nasce un lirismo intenso e sottile, sorretto da una finissima tessitura pittorica, nell’ambiguità fra presenza e ricordo.”

Testualità “logogrifica” dei flani
C’è un sontuoso libro pubblicato giusto quarant’anni fa sempre dalle Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, che rievoca efficacemente, nel suo apparato iconico, la suggestività di questo universo di tracce di memoria, in sfida di decriptabilità, offerte dall’utilizzo che Ezio sapientemente e immaginosamente andava facendo da alcuni anni della tecnica dei flani. È il volume intitolato Ezio Gribaudo. Il peso del concreto, nel quale quelle tracce si possono leggere in tutta la loro suggestione, in quella che Raffaele Carrieri chiama, quanto a virtualità iconiche, “la scrittura dei cataclismi, i tracciati di una futura geo- grafia”. Ezio usava infatti la tecnica dei flani subito in termini di effetto da ready-made, effettivo o supponibile che di fatto questo risultasse (ma i primi erano testuali, di in- tere pagine, mentre in breve saranno poi singole immagini o insiemi d’immagini). Ma quanto finalmente vi proponeva, in modi dunque di supponibile sorta di ready-made, apparente o effettivo, con significativo miscuglio linguistico, si potrebbe comunque di- re che risultasse di fatto dirigé. Una sorta di ready-made dirigé, insomma. In realtà il “già fatto” non vi consisteva tanto nel processo di esibita citazione iconico-segnica dell’as- semblaggio che connetteva le impressioni operate, il quale risultava complessivamente appunto piuttosto “diretto”, quanto tuttavia anche nell’origine stessa dei materiali iconici tipografici impiegati, recuperati e trattati attraverso l’impressione in una sorta di risulta in un “negativo” plastico che ne ribaltava subito i rapporti e le imminenze; accadeva in un atto indubbiamente di appropriazione molto personale, che costituisce il fascino di quelle carte.

Di qui una complessità procedurale e allusiva dei flani gribaudiani, che si affermava proprio in un confronto ad ampio raggio storico sotto il duplice profilo sia della materialità dell’immagine ready-made (attraverso appunto le originarie matrici dell’impressione), sia della sua composizione associativa, insomma dell’assemblaggio iconico costitutivo, appunto dirigé, come cercai di mettere a fuoco in un testo scritto per quel volume, sottolineando allora la consistenza più prenozionale che nozionale del riferimento iconico: “Questi fogli di Gribaudo sollecitano eventualità, ipotesi di immagini, attraverso un procedere indubbia- mente associativo (di suggestioni figurali e semantiche), se non sapientemente combinatorio.

Tutta la vicenda del fotomontaggio dadaista, e poi, soprattutto, surrealista si è svolta sull’associazione di immagini crucialmente significanti, e che nuova carica semantica veni- vano ad assumere proprio appunto nella nuovissima frizione alla quale erano costrette: in risultati, almeno certo per quanto riguarda i fotomontaggi surrealisti, giocati proprio sulla sorpresa che già aveva indicato Lautréamont: ‘Bello come l’incontro fortuito…’

I fogli di Gribaudo naturalmente nulla hanno a che fare con i fotomontaggi dadaisti, né tanto meno con quelli surrealisti, come neppure con quelle sottili ed acutissime contami- nazioni della vecchia imagerie popolare e borghese che ha compiuto Ernst, per esempio nella sua celeberrima Une semaine de bonté.

Ho ricordato dunque quei tipici esempi d’immaginazione associativa soltanto per avvertire meglio subito la particolare natura dell’intervento d’immaginazione associativa di Gribaudo. Ed anzitutto il suo livello operativo, se così posso dire.

È chiaro infatti che il fotomontaggio dadaista, quanto quello surrealista (da Haus- mann, Heartfield, insomma, fino a Sˇtyrsky ́, Toyen, Teige) opera associando brani di immagini nozionalmente definiti (sia pure attraverso quella nuovissima dimensione d’i- magerie, fondata su quello che in altra occasione ho chiamato ‘rinnovamento delle nozioni visive’, trattandosi infatti di immagini fotografiche e di fotoriproduzioni meccaniche).

Mentre il livello al quale Gribaudo si muove, direi scandagliando con la sua immagi- nazione associativa e combinatoria, è assolutamente prenozionale, o di nozionalità aurorale e possibilistica. Non certo però quell’auroralità nozionale, quella prenozionalità che fu il terreno tipico di alcune delle maggiori mozioni informali (si pensi a quegli Objets di Fautrier, intesi, come bene scrisse più d’una decina d’anni fa Berne-Joffroy, quasi la loro nozione non fosse ancora definita). Piuttosto un singolare livello di desemantizzazione, e cioè di regres- sione nozionale, quale viene a verificarsi quando l’immagine nozionalmente chiara e distinta subisca particolari ‘trattamenti’ grafici, oppure s’avventuri sulla via del relitto, in quella vicenda ‘post mortem’ rispetto alla ‘vita’ piena e tuttavia esaurita della sua originaria destina- zione (come accade per esempio al cliché tipografico una volta concluso il suo impiego). È appunto a questo livello che interviene Gribaudo. Egli combina, riplasma semanticamente veri e propri ‘cascami’ semantici visuali. Non per riproporne, sia pure in situazioni nuove, l’originaria semanticità, l’originaria loro validità nozionale, bensì proprio per sollecitarli in quanto tali, per spremerli, si potrebbe quasi dire di tutte le loro virtualità semantiche, pur non uscendo da quel loro livello appunto di ‘cascami’, di frammenti e ombre di immagini nozionali a volte in essi soltanto vagamente intuibili.

Del resto a Gribaudo non mi sembra prema di riconquistare immagini nozionali chiare e distinte, cittadine di quella ‘ionosfera’ della quale parla Cohen-Séat: bensì, molto chiara- mente, immagini fantastiche, o più esattamente appunto eventualità, ipotesi di immagini, ma certo dunque di loro validità tutta fantastica. In una recente presentazione milanese di questi fogli, Barilli ha ben messo in luce come Gribaudo si serva, per queste sue singolaris- sime incisioni, di uno strumento meccanico, denunciandolo subito per tale (il reimpiego di cliché tipografici, la stampa a secco, neutra, anemotiva, quasi asettica). Ma ecco dunque che, nel bel mezzo della dichiarata meccanicità, Gribaudo opera per riscattare proprio un margine d’immaginatività libera, di fantasia associativa (in immagini appunto meramente virtuali, ipotetiche, meramente allusorie), che non è certo della macchina, né del suo ferreo circolo di logica economica.

Nascono così queste singolarissime topografie (o meglio forse topologie?), che descrivo- no luoghi improbabili e arcani, instancabilmente irripetuti, ove accanto a un’ipotetica oro- grafia, ecco sbocciare una sorta di fiore, o di riccio decorativo, addirittura di sagoma umana. È appunto l’assenza del bianco, la neutralità della stampa a secco a mantenere quel livello di ombre di nozioni visive, a restringere in certo modo il campo dell’intervento immaginativo, così che non dilaghi e sfugga, bensì si offra con tutta chiarezza lì sul foglio anche nel suo mec- canismo associativo, scopra le proprie carte, denunci le proprie componenti. Ma è appunto in questo margine volutamente ristretto che simili proposizioni acquistano il loro fascino e il loro mistero: la cui origine è dunque in fondo in un’analitica sottile che sa farsi strumento d’articolazione del proprio discorso figurale di una crescita associativa automatica”.

Identità del flâneur
Ma se, come ci suggerisce puntualmente nel suo sesto volume il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia (Utet, Torino 1970), flano ha origine da un adatta- mento nostrano del francese flan, che già nel XIV secolo si riferiva a uno sformato cotto a bagnomaria, in un’occasione come questa, certamente anche d’una nuova riflessione sull’uso gribaudiano del flano, vorrei un po’ sfacciatamente proporre una digressione etimologica arbitraria quanto tuttavia significativa, credo. Intendo dire che non riesco a trattenermi dall’immaginare che, nel modo in cui se ne è appropriato, in quanto tecnica impressiva di immagini, scritture, tracce, Ezio sia di fatto riuscito a deviare profondamente l’ascenden- za etimologica corrente del termine tipografico. Connettendo in realtà flano non tanto a un’ascendenza, d’analogia di cultura materiale culinaria, in flan ma, riferendosi comunque sempre a una matrice francesistica, a flânerie, vale a dire alla nozione del “gironzolare”, dell’“andare a zonzo”, del “bighellonare”. Riferendosi dunque all’esercizio, a suo modo anche

possibilmente sublime, del flâneur, del “bighellonatore” memoriale in modi di divagazione inventiva iconico-grafici. Ecco mi sembra oggi, a distanza, quanto mai evidente che più che l’atto dell’appropriazione impressiva dell’immagine, della forma, del segno, della traccia, in condizione di ready-made, sulla carta pastosa, contasse intimamente per Ezio proprio quel suo “andare a zonzo”, quel possibile liberissimo divagare associativo, sul filo della memoria, fra le immagini, o meglio connettendo analogicamente immagini, liberamente “bighello- nandovi”, memorialmente. Tutto ciò risolvendosi in un’elegante esibizione di divertissement grafico di forte consapevolezza plastica, in modi di arcana eleganza, giocata (nel tempo) sulla misteriosità evocativa, memorialmente decantata, del bianco. Non è un caso che nelle pagine di quel volume del 1968, Ezio Gribaudo. Il peso del concreto, il confronto fosse sviluppato soprattutto con un’antologia di testi di poesia “concreta”, dunque in una implicita riduzione archetipa di parola-segno ed episodio di una ipotetica scrittura plastica altrettanto criptica: archetipo verbale contro archetipo iconico-segnico. Ma contro l’iteratività dell’immaginazio- ne, spesso appunto d’obbligazione modulare, della poesia “concreta”, stava in quelle pagine il “gironzolare” liberamente inventivo, iconico-segnico, che muoveva la curiosità combinatoria dell’immaginazione gribaudiana. Una diversione in realtà significativa, che ha colpito a suo tempo personaggi non certo facili, e fra di loro diversissimi, come Hans Richter (1972), Graham Sutherland (1974), Jean Dubuffet (1976).

Ci sono quasi delle costanti nel lavoro plastico-visivo di Gribaudo, almeno nella defi- nibilità di una sua consistenza assiologica. E mi sembra che si riassumano proprio anzitutto nell’atto dell’impressione, dell’imprimere, dell’affondare l’immagine-segno-forma nella corpo- sità del flano (o dell’equivalente in polistirolo), come modalità di definizione di una possibilità di presenza d’immagine. Atto che presuppone l’appropriazione del ready-made tipografico, dell’immagine o del segno o appunto della forma trovati, e che tuttavia può risolversi non soltanto in una presenza “in negativo”, come nei tanti “logogrifi” che hanno segnato l’afferma- zione originale dell’immaginazione plastica di Ezio. Ma anche – al contrario – in un’afferma- zione “in positivo”, di rilevata plasticità, come quando (1969) realizza cubi in polistirolo con tracce solcate, memorie e topografie misteriose, livelli, forme arcane, oppure quando (1970) costruisce piramidi in rilievo, internamente composite, o ancora (1973) piramidi in tecniche miste o in bronzo, oppure (1975) costruisce sculture in sagome ritagliate (e si potrebbe con- tinuare fino ai “dinosauri”, 1980-1985, o fino ai recentissimi totemici “tori”, 2007). Ma cer- tamente una costante è da riconoscersi anche nell’atto, spesso ricorrente, della combinazione assemblaggistica di immagini, segni, forme impresse. Il processo d’assemblaggio combinatorio è infatti un’altra ricorrenza costitutiva dell’immaginazione gribaudesca e offre la base fondativa alla dimensione memoriale sulla quale lavora, in modi diversi, nel tempo, la fantasia di Ezio. La base sulla quale si muove il suo divagare fantastico, sempre tuttavia formulato attraverso possibilità associative, possibilità evocative, connessioni quindi di memoria. La quale non si pone tanto come questione individuale, quanto nei modi di una sorta di sconfinato piacere di sfogliare il mondo delle immagini esistenti o possibili, singole o combinate, testuali o ri- flesse. Tutte comunque distanziate attraverso un filtro che il distacco prodotto dal bianco su bianco in particolare offre alla libertà evocativo-associativa appunto della memoria. La quale agisce proprio liberamente, direi in una vaga latitudine antropologico-ecologico-enciclopedi- co-comunicativa, attraverso un processo di desemantizzazione divagatoria che libera la natura originaria dell’immagine in una nuova funzionalità meramente infine segnico-formale, in ragione esattamente di uno sconfinato piacere di flânerie.

Alla fine vince la profondità del bianco

“Bighellonare” liberamente fra i segni, fra le connessioni memoriali, analogiche, lo si può, e ritengo meglio che in alcuna altra possibilità, entro la pratica totalizzante del bianco, che si fa materia ove si configura e materializza la realtà d’uno spazio d’evocazione, di memo- ria, d’un probabilismo di nessi possibili e d’analogie subentranti. Tuttavia quella libertà intrinseca appunto alla natura del flâneur, comporta anche la possibilità e il rischio dello scantonamento oltre quel privilegiato (e infine privilegiante) territorio del bianco, del candore. E a Gribaudo è accaduto in diverse occasioni di tentazione pittorica, derogando dunque (e a mio avviso pericolosamente) dall’integrità del bianco su bianco; in particolare, per esempio: nel 1971 nei metallogrifi, impressioni su superfici metalliche sottili in oro, o rosso, o in altri colori, strappate; nel 1975 in cieli, a pittura fluida; nel 1968-1988 nel ciclo intitolato Teatro della memoria, in una commistione di collage di forme e di colore su flani, e poi in altri, datati 1965-2002/3/4, alla medesima insegna, retabli impressi, colora- ti, figuranti storie fantastiche: vaga evocazione preistorica (dinosauri ecc.). Scantonamenti ricorrenti in questi primi anni duemila: dall’attualità del palio di Asti del 2002 (cavalli) alla preistoria (ripresa Dinosauri), in un gremito di horror vacui memoriale assillante, fino alla distensione pittorica nel 2002, figurando brontosauri su carta, su grandi fogli, che ricorrono poi ancora nel 2005.

Penso che questi scantonamenti dalla totalità del bianco nell’impiego, meno evidente- mente sintetico e più facilmente discorsivo, del colore, comportino il tentativo da parte di Ezio di problematizzare la dimensione del suo “bighellonare” memoriale. Se nell’impres- sione bianco su bianco si può dire si abbia una memoria “intrinseca”, nello scantonamento compromissorio nel colore, nel collage, a volte su una base di già esercitate impressioni, mi sembra che si tenti invece la possibilità di una memoria “estrinseca”, ove la libertà divaga- toria del flâneur si muove liberamente non soltanto associando desemantizzate immagini sospinte in dimensione prenozionale, ma operando una desemantizzazione dell’evidenza materico-oggettuale circostanziata verso una sorta di prenozionalità originaria della ma- teria stessa.

Che è quanto cercavo di sottolineare presentando i suoi Metallogrifi ’70 alla Galleria dei Mercanti di Torino, nell’aprile-maggio 1970: “Anni fa, per i ‘bianchi’ di Gribaudo, avevo parlato di volontà di porsi ad un livello prenozionale, di processo di desemantiz- zazione, di regressione nozionale, riferendomi alle nozioni visive implicite nei ‘cascami’ semantici visuali che egli riuniva in modo diversissimo e nuovissimo, e poi stampava ‘a secco’ sul foglio, così associati (e alla distanza appaiono prove di una dissociatoria ‘scrittu- ra-immagine’ anch’esse).

Ora quel procedimento, sia pure con lieve sfalsatura di materiale – dal candido foglio alla materia plastica –, non è più per Gribaudo un punto d’arrivo, quanto un punto di partenza. Rispetto a quei ‘cascami’ semantici visuali si verifica allora una sorta di deseman- tizzazione a livello secondo, se così posso dire.

E ciò avviene esattamente attraverso un’ulteriore regressione: non più soltanto nozio- nale, bensì verso la materia, prima, irrompente, catturante e inglobante. Qui la deseman- tizzazione in certo modo accenna a concludersi in un ritorno alla primarietà originaria, ove quell’avvio di prenozionalità dunque in certo modo si completa.

Il fuoco appunto brucia, esalta cromaticamente, ingoia in un nuovo impasto quei primi segni che un tempo da soli cantavano, in nuovissime associazioni appunto sul foglio. E anzi Gribaudo espone proprio questa sorta di destino, di desinenza, mostrandoci il progredire del fuoco sul segno, sul riconoscibile ‘cascame’ semantico visuale.

Certo Gribaudo è preso dal fascino della materia – del resto secondo una sua vocazione degli anni di frequentazione informale –. Anzi da una lussuria del fuoco, che però non è distruzione (come in Burri, fuoco che piaga irredimibilmente), bensì quasi arricchimento, esaltazione insomma estrema della materia, di un suo primario splendore.

In certo modo Gribaudo sembra rivendicare i diritti della materia sull’immagine, del ge- sto sul segno, dell’esistenza sulla nozione, dell’elemento primo sulla convenzione: quasi isti- tuendoci un allegorico transito, à rebours, dalla scrittura-immagine all’Informale, appunto”.

Non so se dipenda da una componente nostalgica, ma non lo credo; certo è che istin- tivamente riconosco nella gamma, peraltro assai svariata nel tempo, del suo lavoro “bianco su bianco” il Gribaudo immaginativamente più originale, costruttivo e rigoroso. Capace di originare una condizione di spaesamento memoriale possibilistico. Sono insomma par- tigiano delle sue soluzioni di memoria “intrinseca”, alle sue proposizioni di rastremazione icastica, per combinatoria e associativa che sia, più che dei suoi smarginamenti in tentazioni narrative, entro le quali il gremito delle sovrapposizioni iconiche, in una condizione di commistioni cromatiche, mi sembra che subentri a una certa misteriosità dell’emblematica iconico-segnica nella profondità spaesante del monocromatismo.

Una digressione scultorea

Forse la mia preferenza per il Gribaudo più composto, netto e limpido deriva anche dal fatto che l’ultima volta che ho scritto sul suo lavoro risale a un quarto di secolo fa, ed è stato per sue sculture di legno nelle quali la nettezza iconico-segnica dei flani d’un tempo si ripropo- neva plasticamente potenziata nella novità dei legni, legni di tiglio, nella loro naturalità di materie a vista (come Cagli ci aveva abituati in certe sue proposte degli anni sessanta-set- tanta, rilievi a curve di livello in legno grezzo), per evocare immagini e segni, topografie, di natura. Era per presentare la sua personale romana nella Galleria d’Arte Moderna Toninelli, nell’aprile-maggio 1982. Scrivevo: “I ‘legni’ di Gribaudo ci propongono immagini inedite di ‘natura’. Direi esattamente di una ‘natura’ attraversata da una pratica tecnologica, ma infine recuperata proprio come tale, al di là della tecnologia. Insomma, le sue sono possibili immagini attuali, postecnologiche, di ‘natura’.

Queste immagini nuove ci si offrono anzitutto configurate in un’estrema concretezza di riferimento. Infatti sono una sorta di altorilievo scavato nel legno naturale, nel legno di tiglio, che ci si presenta del tutto semplicemente grezzo, dichiarando cioè interamente la propria origine, e tutta la sua qualità di brano di natura immediatamente riconoscibile e verificabile. Ed entro questa concretezza, di materia naturale autentica, vera, ci è offerta un’immagine in certo modo di sintesi ecologica. È infatti un’immagine quasi di livelli di quota di un plastico, che tuttavia è come attaccata da dei tarli, da delle incisioni, quasi di logica organica, che ne bucano i livelli più interni, le quote più basse.

Ce ne viene dunque un’immagine sintetica di ‘natura’, intesa infatti quale segno sim- bolizzante una ricchezza di liberi movimenti orografici, e insieme quale proposizione d’un immediato contatto di materia, il legno appunto. Immagine insomma simbolizzata della natura, ma data nel concreto di una materia naturale, che ci si dichiara come tale, nel ricco fascino della sua grezzezza.

I ‘legni’ di Gribaudo sono il risultato di un suo lungo percorso di ricerca, che rimonta a quel ricupero, quindici anni fa, di immagini in negativo che egli aveva proposto nei suoi ‘flani’ di giornale (le forme entro le quali si realizzava allora la fusione intera e finale della pagina di un giornale).

Vi recuperava i diversi segni tipografici, a costituire una nuova possibilità d’immagine divenuta concretamente oggetto, e non più di rimando soltanto ideale.

Lungo la seconda metà degli anni sessanta, poi, i ‘logogrifi’ di Gribaudo proponevano vere e proprie immagini segnate in negativo, attraverso l’impressione, in carta di ‘clichés’ ti- pografici manipolati. Erano fogli di grande fascino nelle immagini impresse bianco su bianco (opere con le quali Gribaudo ha vinto il premio per l’incisione nella Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1966). Un fascino che in questi ‘legni’ si rinnova, ma in termini diversi, proprio nella tonalità della materia grezza ‘a vista’.

E ai ‘logogrifi’ Gribaudo ha cominciato a pensare, ad un certo punto, come a ‘sculture portatili’. Alla fine degli anni sessanta i ‘logogrifi’ del resto hanno preso una tale consistenza plastica, dico proprio di spessore, realizzati non più sul foglio di carta, ma in fogli di polisti- rolo espanso (sempre bianco, naturalmente: e bianco inciso nel bianco, pur con l’inevitabile gioco di ombre abbastanza profonde), da divenire dei veri altorilievi, presentatisi anzi a volte come dei cubi con le facce ad altorilievo.

I ‘legni’ sviluppano negli ultimi anni quella lontana esperienza, ma aprendo ad una sorta di ‘grande stile’. E al tempo stesso affinano la tematica dei rilievi incisi da Gribaudo. Non più infatti soltanto ‘silhouettes’ di immagini, memorie di figure e di situazioni, ma preponderante il tema della natura, di un’immagine sintetica, aerea e concettuale (giacché simbolica) della natura, realizzata appunto in una materia concretamente naturale, come il legno.

Se i ‘logogrifi’ su carta e su polistirolo, nel loro stesso candore (bianco su bianco) appa- rivano un po’ come un’estensione in oggetto della pagina, del campo insomma della grafica, qui, nei ‘legni’, siamo invece nel pieno dominio di spessore plastico delle possibilità della scultura.

I ‘legni’ di Gribaudo sono infatti ipotesi di scultura, realizzata con la disinvoltura di figurazione di chi ha lunga esperienza di manipolazione della realtà grafica della pagina, segni ed immagini”.

Sul personaggio

Per concludere, credo che un personaggio come Gribaudo, che il personaggio Gribaudo, validamente ricostruito in questa occasione in tutte le particolarità dei suoi molteplici interessi operativi, vada tuttavia percepito soprattutto nella sua interezza piuttosto che separatamente, settore per settore della sua svariata operatività. Proprio perché soprattutto conta nel suo caso, mi sembra, una circolarità di interessi, mossi da un attivismo che forse era proprio dei tempi, difficili certo ma di quasi illimitata fiducia operativa spendibile, di entusiasmo per possibili aperture culturali, di attività, di scambi internazionali, di possibi- lità costruttive, di prospettive creative. Ben inserito, proprio perché propositivo, Ezio, in un ambiente fra i più vivi in Italia certamente, ma anche in Europa, quale era la Torino in particolare degli anni cinquanta e sessanta, che possedeva energie endogene di creatività e operatività, di riscontri internazionali primari, che contavano di più ancora di grandi eventi importanti come fu “Italia 61”. Gribaudo era un esponente giovane, attivo in campi culturali diversi, di una Torino che costituiva dunque un punto di riferimento, dalle pre- senze creative alle attività espositive a quelle editoriali. Accettiamo dunque il personaggio in tutta la trama delle sue interattività culturali; e poi ciascuno scelga liberamente fra gli ambiti del suo lavoro, fra i suoi lavori, quello che più lo convinca.

Per quanto mi riguarda ricordo affettuosamente e con riconoscenza in particolare l’editore, che mi diede grande fiducia, e insieme l’autore di pagine bianco su bianco indub- biamente memorabili perché propositivamente molto personali. Anche se si tratta di eventi ormai molto lontani.