Renato Barilli
Sito web ufficiale dell'artista Ezio Gribaudo
1121
post-template-default,single,single-post,postid-1121,single-format-standard,stockholm-core-2.0.9,select-theme-ver-6.8,ajax_fade,page_not_loaded,vertical_menu_enabled,paspartu_enabled,menu-animation-line-through,side_area_uncovered,,qode_menu_,wpb-js-composer js-comp-ver-6.11.0,vc_responsive

Renato Barilli

[…] La mossa recente di Gribaudo è consistita nel superamento dell’ultimo baluardo della “stampa”, vale a dire il torchio. Questo tuttavia senza passare ad altro, senza snaturare il senso ultimo di certi procedimenti. occorreva cioè mantenere per sempre la logica di un fare “in verticale”, per approfondimenti successivi, trovando cioè degli effetti equivalenti alla corrosione degli acidi o alla compressione delle matrici, ma trasportati ormai in uno spazio più ampio. Come altri, Gribaudo si è rivolto ai buoni uffici delle resine sintetiche, e in particolare al tenero e friabile polistirolo, oltrettutto di un “bianco” abbagliante che in un certo senso lo predestinava a un incontro con l’artista torinese. Ma, una volta scomparsi l’acido e il torchio, l’intero procedimento si è rovesciato “come un guanto”, non è più consistito cioè in un togliere, quanto piuttosto in un “aggiungere”, in un addizionare strati e pelli successive, via via rientranti man mano che si procede verso l’esterno, verso il massimo grado di sporgenza: il procedimento, insomma, dei “plastici” che rendono la configurazione del terreno resecandolo secondo piani condotti a certe quote stabilite e scalate tra loro a distanze regolari. Nel che evidentemente sta, come si diceva, un equivalente dei vari gradi di “morsura” raggiungibili con l’acido nell’incisione tradizionale. Ma quale maggiore ampiezza di scala, e quindi di effetti, quali possibilita di estensione illimitata! Non è più neppure il caso di parlare di “foglio”: di superficie bidimensionale, si va verso una sempre più aggressiva invasione dello spazio: basterà “scalare” maggiormente tra loro le quote di livello, partire da basi più vaste, e davvero la corrugata orografia risultante non avrà più confini; tanto più che da un primo “plastico”, magari ancora limitato quanto ad ampiezza, si potrebbero ottenere ingrandimenti a piacere mediante un pantografo disposto a frugare nelle rughe del terreno e a proiettarle quindi in misura moltiplicata su supporti corrispondentemente dilatati. Con ciò saremmo pur sempre all’interno di una tecnica di stampa e quindi anche di “riproduzione” dell’opera d’arte, benché ovviamente trasportata ben oltre i limiti modesti raggiungibili un tempo. Ma sarebbe sbagliato vergognarsi del carattere stereotipato di simili procedimenti, e sarebbe addirittura ipocrita cercare di nasconderli: poiché esso, appunto, era già insito fin dalle origini nel concetto di stampa, e nulla cambia se ora gli si danno svolgimenti piu consoni alle esigenze attuali. Gribaudo, per sua fortuna, non si è mai vergognato dei coefficienti stereotipi e impersonali insiti nei suoi sistemi di produzione, e anzi è sempre stato disposto a trarne profitto, a lasciar mediare e filtrare attraverso di essi il suo proprio nucleo di invenzione personale e originaria. Quanto ai risultati di tutto l’attuale ciclo di ingrandimenti e di proiezioni tridimensionali, essi sono di ordine fortemente suggestivo: la luce e l’ombra possono ora giocare in misura ben piu accentuata di quando avevano a che fare con le pur sempre modeste anfrattuosità ricavate dalla “stampa”. Sono superfici selenitiche, quelle che si aprono adesso ai nostri occhi, intricati sistemi di contrafforti, grandiosi resti di bassorilievi corrosi dagli agenti atmosferici. Nuove suggestive proporzioni, in cui tuttavia, a garanzia di una pur necessaria persistenza di motivi, riconosciamo il doppio movimento tipico di Gribaudo, il fare e il disfare, la buona disposizione ad assecondare la logica intrinseca dei mezzi – la “stampa” di ieri, il “plastico” di oggi consentendo loro appunto di formulare immagini e modelli stereotipati: salvo poi a scatenare un processo di segno contrario, negativo, per effetto del quale immagini e stereotipi – “logogrifi”, per valerci del suo termine come affetti da una lebbra sottile, si decompongono, entrano in sfacelo, intorbidano la loro piana e liscia leggibilità; e con ciò una tensione drammatica entra in scena, agitandosi tenace pur nel clima silenzioso dei “bianchi”.